RIBELLI
E RIBELLIONE[i]
ALAIN DE BENOIST
Dovendo
intervenire in una discussione dedicata all’idea di ribellione, la
prima delle cose da fare è senz’altro quella di interrogarsi sulla
definizione del ribelle, e il miglior modo di farlo è forse quello di
paragonare la figura del ribelle a due altre figure, il cui nome
comincia tra l’altro con la stessa lettera: il rivoltoso e il
rivoluzionario. Queste tre figure hanno indubbiamente degli aspetti in
comune. Il ribelle, il rivoltoso e il rivoluzionario, per
esempio, incarnano tutti e tre una legittimità che si oppone alla
legalità dell’ordine costituito. Ma tra di loro vi sono anche delle
differenze.
Il
rivoltoso appartiene senza alcun dubbio a tutte le epoche, e il
nostro passato ne è testimone. La storia della Francia e dell’Europa
può infatti leggersi come un susseguirsi quasi ininterrotto di rivolte
popolari, movimenti di protesta e insurrezioni. Dalle antiche jacqueries
contadine alla rivolta della Vandea, dall’epoca di Cartouche e di
Mandrin all’insurrezione dei canuts lionesi, dalla Guerra dei
Contadini tedeschi alla molto socialista e molto patriottica Comune di
Parigi, la tenace disobbedienza di certe province e di certi ambienti
sociali insofferenti, refrattari e renitenti, è una costante della
nostra storia che la storiografia ufficiale ha peraltro troppo spesso
trascurato. Per esempio, mentre alcuni storici avevano creduto di poter
parlare di «relativo rappacificamento» a partire dal 1670, Jean
Nicolas ha contato recentemente qualcosa come 8500 atti di ribellione o
di rivolta in Francia tra il 1661 e il 1789.[ii]
Di generazione in generazione, ci si rivolta contro la tirannia, contro
la pressione fiscale, contro l’ingiustizia sociale, l’assolutismo o
i poteri costituiti, ed il bersaglio è di volta in volta il principe,
il prete, l’aguzzino o il tiranno. In ognuno di questi casi al rifiuto
di una costrizione insopportabile si aggiunge un vero e proprio istinto
di rifiuto, molto spesso alimentato dall’appartenenza culturale o
linguistica, dalla solidarietà professionale o sociale, dalla chiara
coscienza di appartenere ad un’entità collettiva.
Naturalmente
le rivolte non sono una prerogativa dell’Ancien Régime, ma
sono continuate anche nel periodo repubblicano, e ciò è un segnale di
come l’avvento dell’ideologia dei diritti umani non abbia per nulla
cambiato le cose. Quest’ultima, universalizzando alcuni valori
particolari, ha messo fine a certe oppressioni, ma in compenso ne ha da
subito suscitate delle nuove; preoccupandosi degli individui, si è
disinteressata delle comunità e dei popoli; affrontando da un punto di
vista esclusivamente giuridico e morale – quello dei diritti
soggettivi inerenti alla natura umana – problemi legati alla nozione
essenzialmente politica di libertà, ha finito per eluderli.
Il rivoluzionario appare invece in
circostanze storiche molto particolari. Rispetto al rivoltoso, presenta
soprattutto due grandi tratti caratteristici: da una parte è dotato di
una coscienza ideologica molto più forte, dall’altra manifesta
un’esigenza di trasformazione molto più radicale. Ecco perché si
oppone a ciò che considera come puramente istintivo, se non ingenuo,
nella semplice rivolta. Ed ecco perché, allo stesso modo, rifiuta ogni
riformismo, contrapponendo all’ideologia dominante una visione del
mondo diversa. In questo senso, il rivoluzionario è una figura della
modernità, che non può che apparire nel momento in cui le ideologie
profane hanno preso il posto dei grandi racconti religiosi, nell’epoca
in cui la società, erosa dall’interno, sta per esplodere sotto
l’effetto delle azioni rivoluzionarie.
Tuttavia,
accanto ai rivoltosi ed ai rivoluzionari, ci sono anche i dissidenti, i
liberi pensatori e i non credenti, i fondatori di samizdats ante
litteram, le vittime dei cacciatori di streghe e dei tribunali della
Santa Inquisizione, tutti coloro che nel corso della storia sono stati
perseguitati, censurati, imprigionati per anticonformismo rispetto alle
ortodossie del momento – tutti coloro che, secolo dopo secolo, si
avvicendano e comunicano, formando una lunga catena fraterna i cui
anelli sono le parole d’ordine del pensiero libero. Tutti questi sono
già dei ribelli, e continuano ad esistere al giorno d’oggi. Sono
coloro che disturbano, coloro di cui i guardiani del pensiero unico
hanno deciso di non parlare; se non sono imprigionati, sono messi al
bando. Le loro pubblicazioni sono a malapena tollerate, in ogni caso
emarginate, condannandoli in questo modo alla morte mediatica e sociale.
Alla pari del rivoltoso, il ribelle
rifiuta l’ordine dominante del mondo in seno al quale è stato
gettato. Come il rivoluzionario, lo rifiuta in nome di un altro sistema
di valori, di una concezione del mondo che trova in se stesso e di cui
si fa portatore. Tuttavia, al contrario del rivoltoso o del resistente,
il ribelle trae innanzitutto da se stesso ciò che anima il suo
atteggiamento. La rivolta è legata ad una situazione, ad una
congiuntura che ne è la causa, e si spegne nel momento in cui tale
causa sparisce e la situazione cambia. La ribellione invece non è
legata solamente alle circostanze, ma è di ordine esistenziale. Il
ribelle sente fisicamente ed istintivamente l’impostura. Rivoltosi si
diventa, ma ribelli si nasce. Il ribelle è ribelle perché ogni altro
modo di esistere gli è impossibile. Il resistente cessa di resistere
quando non ha più i mezzi per farlo. Il ribelle, anche in prigione,
continua ad essere un ribelle. Ecco perché se può dirsi perdente, non
può mai dirsi vinto. Non sempre i ribelli possono cambiare il mondo. Ma
mai il mondo potrà cambiare i ribelli.
Il
ribelle può essere attivo o contemplativo, uomo di cultura o
d’azione. Sul piano strategico, può essere leone o volpe, quercia o
canna. Ci sono ribelli di ogni sorta, e ciò che hanno in comune è una
certa capacità di dire no. Il ribelle è colui che non cede, colui che
rifiuta, colui che dice: non posso. È colui che disdegna ciò che
cercano gli altri: gli onori, gli interessi, i privilegi, il
riconoscimento sociale. Al tavolo da gioco, è colui che non gioca. Lo
spirito del tempo scivola su di lui come pioggia sui vetri. Spirito
libero, uomo libero, per lui non c’è nulla al di sopra della libertà.
È la libertà stessa. «È ribelle, scrive Jünger, chiunque sia messo
in rapporto con la libertà dalla legge della sua natura».[iii]
Di
fronte ad un mondo per il quale non prova altro che un divertito
disprezzo o un dichiarato disgusto, il ribelle non può limitarsi
all’indifferenza, essendo essa ancora troppo vicina alla neutralità.
Il ribelle è fatto per la lotta, sia essa anche senza speranza. Il
ribelle si sente straniero al mondo che abita, ma senza mai smettere di
volerlo abitare: sa che non si può nuotare contro corrente se non a
condizione di non abbandonare mai il letto del fiume. La distanza
interiore che lo caratterizza non lo conduce a rifiutare il contatto,
poiché sa che il contatto è necessario alla lotta. E se fa «appello
alle foreste» per riprendere un’espressione conosciuta, non è per
rifugiarvisi – anche se spesso è in esilio –, ma per riprendere
forza. D’altra parte, scrive ancora Ernst Jünger, «la foresta è
dappertutto. Ci sono foreste nel deserto così come nelle città,
foreste in cui il Ribelle vive nascosto dietro la maschera di qualche
professione. Ci sono foreste nella sua patria, così come in ogni altro
suolo in cui si può concretare la sua resistenza. Ma ci sono
soprattutto delle foreste nelle retrovie del nemico». Se ciò che
distingue il rivoluzionario è la volontà di raggiungere uno scopo, il
ribelle incarna innanzitutto uno stato d’animo ed uno stile. Ciò non
toglie che sappia anche fissarsi degli obiettivi. Nei confronti del
mondo che lo circonda, nei confronti del “corso della storia”, della
congiuntura, si sforza di identificare e cogliere il momento favorevole.
Per rompere l’accerchiamento, per tentare di introdurre un granello di
sabbia nell’ingranaggio, ragiona su situazioni concrete. In questo è
innanzitutto mobile. Mobilita il pensiero, e fa uso di un pensiero
mobile. Non è soldato ma partigiano. Non resta dietro il fronte – sa
attraversare tutti i fronti.
*
Contro che cosa ci si deve ribellare al
giorno d’oggi? Di fronte all’ascesa del pensiero unico, di fronte al
gonfiarsi di un’onda straordinaria di ciò che non esitiamo a chiamare
il conformismo planetario, di fronte alle diverse patologie che
affliggono le nostre società, di fronte alle varie minacce che su di
esse gravano e che oscurano il loro avvenire, non c’è che
l’imbarazzo della scelta. Mi sembra tuttavia che la maggior parte di
questi fenomeni ai quali tentiamo di opporci abbia una causa comune. Mi
sembra cioè che questi fenomeni si rivelino come conseguenze di
un’ideologia ben precisa, secolare e multiforme, che propongo di
chiamare “l’ideologia dell’Identico”.
L’ideologia
dell’Identico è un’ideologia che si sviluppa a partire da ciò che
c’è di comune in tutti gli uomini. Più precisamente, si sviluppa
tenendo conto solamente di ciò che gli uomini hanno in comune ed
interpretandolo come l’Identico, e ciò significa, in altre parole,
che una tale ideologia non può che aspirare all’appiattimento.
L’Ideologia dell’Identico fa spesso riferimento all’uguaglianza,
ma ad un’uguaglianza puramente astratta: in assenza di un criterio
preciso che permetta di determinarla concretamente, l’uguaglianza non
è altro, infatti, che un diverso nome dell’Identico. L’ideologia
dell’Identico considera dunque l’uguaglianza universale tra gli
uomini come un’uguaglianza in sé, slegata da ogni elemento di
concretezza che permetterebbe di accertarla. È un’ideologia allergica
a tutto ciò che specifica e caratterizza la singolarità, che
interpreta ogni distinzione come potenzialmente spregiativa, che
considera le differenze contingenti, transitorie, inessenziali o
secondarie. Il suo motore è l’idea di Unico, che è ciò che non
sopporta l’Altro, e intende ridurre tutto all’unità: Dio unico,
civiltà unica, pensiero unico.
Quest’ideologia si vuole
contemporaneamente descrittiva e normativa, poiché pone l’identità
fondamentale di tutti gli uomini tanto come un fatto acquisito quanto
come un obiettivo desiderabile e realizzabile – senza mai (o
raramente) interrogarsi sull’origine di questo scarto tra
l’esistente e la realtà a venire. Essa sembra in questo modo
procedere dall’essere al dover-essere. Ma in realtà è proprio sulla
base della sua propria normatività, della sua propria concezione del
dover-essere, che essa postula un essere unitario immaginario, semplice
riflesso della mentalità che la ispira.
Affermando l’identità congenita degli
individui, l’ideologia dell’Identico si scontra con tutto ciò che,
nella vita concreta, con ogni evidenza, li rende differenti, e deve così
spiegare che tali differenze non sono altro che aspetti secondari,
sostanzialmente insignificanti. Gli uomini, ci dice, possono benissimo
essere differenti in apparenza, anche se poi in realtà sono tutti
uguali. Essenza ed esistenza sono in questo modo separate, come lo sono
anima e corpo, spirito e materia, e come lo sono anche i diritti
(fondati sulle caratteristiche della “natura umana”) e i doveri (che
si esercitano solo all’interno di una relazione sociale, quindi in un
contesto ben preciso). L’esistenza concreta non sarebbe così che una
maschera che impedirebbe di vedere l’essenziale. Se ne deduce che
l’ideologia dell’Identico non è nemmeno unitaria nei suoi
presupposti. Erede del mito platonico della caverna e della distinzione
teologica tra l’essere creato e quello non creato, ha una struttura ed
un’ispirazione dualiste, nel senso che non può sostenere la
prospettiva dell’Identico se non appoggiandosi su qualcosa che è
estraneo alla diversità o su qualcosa che la trascende.
Per sradicare la diversità, per
ricondurre l’umanità all’unità politica e sociale, l’ideologia
dell’Identico fa spesso appello, nelle sue formulazioni profane, alle
teorie che vedono nella sovrastruttura sociale, nelle conseguenze della
dominazione, nell’influenza dell’educazione o dell’ambiente, la
causa di queste distinzioni, che vede come un male provvisorio. La fonte
del male sociale è così posta all’esterno dell’uomo, come se
l’esterno non fosse altro che il prodotto e il prolungamento
dell’interno. Modificando le cause esterne, si potrebbe così
trasformare il foro interno dell’uomo, oppure addirittura far emergere
la sua vera “natura”. Per riuscirci si farà ricorso sia a metodi
autoritari e coercitivi, sia a condizionamenti o contro-condizionamenti
sociali, sia al “dialogo” e all’“appello alla ragione”, senza
d’altra parte ottenere più risultati in un caso che nell’altro –
il fallimento essendo poi sempre attribuito non già ad un errore nelle
ipotesi di partenza, ma al carattere ancora insufficiente dei mezzi
impiegati. L’idea sottostante è quella di una società pacifica o
perfetta, o almeno di una società che diventerebbe “giusta” se si
facessero sparire tutte le variabili esterne che impediscono l’avvento
dell’Identico.
L’ideologia dell’Identico è oggi
ampiamente dominante. Si potrebbe addirittura dire che essa è sia la
norma fondamentale da cui derivano tutte le altre, sia la norma unica di
un’epoca senza norme che non ne vuole avere di altre. Ma essa ha anche
una storia: è nata innanzitutto in ambito teologico, concretandosi in
Occidente nell’idea cristiana secondo cui tutti gli uomini, al di là
delle loro caratteristiche individuali, al di là del contesto
particolare della loro esistenza individuale, sono titolari di
un’anima in analoga relazione con Dio. Tutti gli uomini sono per
natura e dignità uguali essendo stati creati ad immagine del Dio unico.
Il corollario, che è stato ampiamente sviluppato da sant’Agostino, è
quello di un’umanità fondamentalmente una, le componenti della quale
sarebbero tutte chiamate a svilupparsi nella stessa direzione,
realizzando tra di loro una convergenza sempre più grande. Si tratta
della radice cristiana dell’idea di progresso. Divenuta terrena
attraverso il lento processo di secolarizzazione, quest’idea darà
vita all’idea di una ragione comune a tutti – «una e intera in
ciascuno», dirà Cartesio – alla quale ogni uomo parteciperebbe in
ragione della sua umanità.
Non
ho chiaramente il tempo di esaminare ora il modo in cui l’ideologia
dell’Identico ha generato in seno alla cultura occidentale tutte le
strategie normative/repressive che Michel Foucault ha descritto in modo
esaustivo. Ricorderò soltanto che lo Stato-nazione, nel corso del suo
percorso storico, si è preoccupato più di assimilare che di integrare,
prefiggendosi di ridurre le differenze uniformando la società globale.
Questa tendenza è stata continuata e accelerata dalla Rivoluzione del
1789 che, fedele allo spirito geometrico, ha decretato la soppressione
di tutti quei corpi intermedi che l’Ancien Régime aveva
lasciato sopravvivere. Da allora ciò che interessa è solo l’umanità
e, analogamente, una cittadinanza il cui esercizio è concepito come
partecipazione all’universalità della cosa pubblica. Gli Ebrei
diventano dei “cittadini come gli altri”, le donne “degli uomini
come gli altri”. Ciò che li caratterizza individualmente,
l’appartenenza a un sesso o a un popolo, viene considerato inesistente
o viene nascosto confinandolo nella sfera privata. Le grandi ideologie
moderne si adeguano così ad un ideale di instaurazione o restaurazione
dell’unità generale. Sogneranno così l’unificazione del mondo da
parte del mercato o una società “omogenea” scevra da ogni negatività
sociale “straniera”, oppure, ancora, un’umanità riconciliata con
se stessa che ha infine ritrovato la sua essenza. L’ideale politico
sarà l’eliminazione progressiva delle frontiere che separano
arbitrariamente gli uomini: ci si dirà “cittadini del mondo”, come
se il “mondo” fosse – o potesse essere – un’entità politica.
Con
la modernità, come tutti sanno, questa tendenza all’omogeneo è stata
portata all’estremo nelle società totalitarie e da parte di un potere
centrale che si reputa l’unica fonte di legittimità possibile. Nelle
società postmoderne occidentali, lo stesso risultato si ottiene con la
mercificazione del mondo, processo più mite, certo, ma non per questo
meno efficace, visto che il grado di omogeneità delle società
occidentali attuali supera ampiamente quello delle società totalitarie
del secolo scorso. Al giorno d’oggi quest’ideologia dell’Identico
si sta diffondendo in ogni ambito. Da essa deriva lo sradicamento
progressivo delle specificità culturali e degli stili di vita diversi;
essa è all’origine della confusione crescente dei ruoli sociali
maschili-femminili, così come è all’origine di un’immigrazione di
massa incontrollata, che porta con sé ogni giorno gravissime patologie
sociali. È essa, infine, che ritroviamo nell’avvento della nuova
religione dei diritti dell’uomo, che pretende di sottomettere la Terra
intera ai suoi diktats giuridici e morali.
L’antropologia
culturale del XX secolo si era fondata su un presupposto relativista,
ovvero la convinzione che le idee, i valori e i comportamenti
caratteristici di ogni popolo o cultura non possono essere capiti ed
apprezzati che nel contesto di tale popolo o cultura. Questo
presupposto, che scaturiva in parte dalle rappresentazioni organiciste
della filosofia politica romantica del secolo scorso, è anch’esso al
giorno d’oggi sempre più dimenticato in nome di questa ideologia dei
diritti dell’uomo, che pretende di educare il mondo intero
sottomettendo tutte le culture agli stessi valori fondamentali, che non
sono niente altro che i valori specifici di una cultura particolare.[iv]
Sotto le sembianze della generosità, un nuovo
imperialismo ha quindi inizio, poiché coloro che cercano di cancellare
dappertutto le differenze cercano in realtà di far assomigliare tutte
le culture alla loro. È una legge che si è ripetuta dappertutto nella
storia.
L’ideologia
dell’Identico è inoltre perfettamente contraddittoria. Nel momento
stesso in cui si dice unificatrice, sancisce uno strappo insuperabile
tra l’umanità e il resto dei viventi, mentre all’interno delle
società umane, a causa dei suoi principi individualisti, provoca una
disgregazione sempre maggiore delle strutture del vivere comune.
L’obiettivo universalista è infatti sempre legato
all’individualismo, non potendo tale ideologia porre l’umanità come
fondamentalmente una se non concependola come composta di atomi
individuali, visti nel modo più astratto possibile, ovvero al di fuori
di ogni contesto e mediazione. È questo il motivo per cui essa mira a
far sparire tutto ciò che si frappone tra l’individuo e l’umanità:
culture popolari, comunità vive, corpi intermediari, stili di vita
diversi. L’ideologia dell’Identico si diffonde eliminando le
differenze, ma eliminando contemporaneamente anche ciò che le tiene
insieme, ovvero le strutture flessibili in seno alle quali le differenze
s’iscrivono, che sono anch’esse diverse. Prendendo di mira
differenze che sono sempre organicamente ordinate, essa suscita nello
stesso tempo l’atomizzazione e la divisione. In mancanza di una
cornice che lo racchiuda, la febbre dell’Uno porta alla dissoluzione
del legame sociale. Quest’aumento dell’individualismo, di cui si
felicitano i liberali, ha portato inoltre all’avvento dello
Stato-Provvidenza, di cui invece si lamentano. È una constatazione
paradossale, che è però la conseguenza di una logica perfetta. Più le
strutture comunitarie crollavano, più lo Stato doveva prendersi carico
della domanda di solidarietà degli individui. Viceversa, più garantiva
loro sicurezza, più li dispensava «dall’intrattenere relazioni
familiari o comunitarie che costituivano in precedenza protezioni
indispensabili».[v]
Movimento dialettico e circolo vizioso: da una parte la società
differenziata si sfalda, dall’altra lo Stato omogeneizzante avanza con
la stessa rapidità dell’individualismo. Più individui isolati ci
sono, più lo Stato può trattarli uniformemente.
Concorrenti
ed opposte tra di loro, le grandi ideologie moderne, affrontandosi,
hanno accentuato le divisioni e le separazioni prodotte dalla diffusione
dell’individualismo. Questo risultato, anch’esso paradossale, non ha
fatto che stimolarle nella loro ambizione: di fronte allo spettro
dell’“anarchia” e della “dissoluzione sociale”, della lotta di
classe, della guerra civile o dell’anomia sociale, esse non hanno
fatto altro che sostenere più intensamente ancora l’allineamento nel
presente e il livellamento nel futuro. Il problema è che l’ideologia
dell’Identico non può che esigere la radicale esclusione di ciò che
non può essere ridotto all’Identico. La diversità irriducibile
diventa così il principale nemico che bisogna sradicare ad ogni costo.
È la molla di ogni ideologia totalitaria: bisogna eliminare questi
“uomini di troppo” che ostacolano con la loro stessa esistenza
l’avvento di una società omogenea o di un mondo unificato. Chi parla
in nome dell’“umanità” mette inevitabilmente i suoi avversari
fuori dall’umanità.
Allo
stesso modo, i difensori dell’ideologia dell’Identico presentano
spesso il pensiero della differenza come sinonimo di pensiero
dell’esclusione, contrapponendogli l’idea che il rispetto
dell’Altro è proporzionale al grado di similitudine. L’affermazione
dell’uguaglianza sarebbe in questo modo non solamente indissociabile
dalla negazione della differenza, ma la conseguenza stessa di questa
negazione. Ma in realtà è vero il contrario. Prova ne è,
innanzitutto, che tutte le dittature hanno cercato l’omogeneità e
l’uniformità; in secondo luogo il pensiero dell’in-differenza,
della similitudine, lungi dal favorire il riavvicinamento, la
comprensione e l’armonia, non smette di sfociare in altre forme di
concorrenza sociale e di ostilità generalizzata. Non solamente la
differenza ritorna sempre, non essendoci due soli esseri viventi che
siano in tutto e per tutto identici, ma ritorna con tanta più forza
quanto più cerchiamo di sopprimerla.[vi]
Ostile
alla differenza, l’ideologia dell’Identico conduce inevitabilmente
all’indifferenziazione. Ora, l’indifferenziazione è sempre un
segnale di disintegrazione sociale, e tale disintegrazione non può che
produrre a sua volta comportamenti aggressivi ed ostili. Gli uomini,
infatti, hanno paura dell’Identico almeno quanta ne hanno
dell’Altro, se non di più. Le ideologie dominanti credono in modo
ecumenico che l’omogeneizzazione del mondo non potrebbe portare che
alla pace poiché permetterebbe una migliore “comprensione”. Ma ci
accorgiamo ben presto che, al contrario, tale omogeneizzazione suscita
conflitti identitarî, risveglia irredentismi secolari e genera
nazionalismi spasmodici. All’interno stesso delle società,
l’ideologia dell’Identico generalizza la rivalità mimetica
descritta ottimamente da René Girard, esacerbando il desiderio di
distinguersi con tanta più forza quanto più proibisce la distinzione,
e questo è il motivo per cui si può dire che intimamente l’Identico
fomenta la guerra. Nella migliore delle ipotesi generalizza
l’indifferenza e la noia. Nella peggiore, porta a reazioni violente e
allo scatenarsi delle passioni.
*
L’ideologia
dell’Identico si materializza al giorno d’oggi sotto i nostri occhi
nel fenomeno della mondializzazione. Abbiamo già avuto l’occasione di
parlarne qualche anno fa,[vii]
ma sentiamo il bisogno ritornarci, poiché la mondializzazione – detta
anche globalizzazione – costituisce ormai, che lo si voglia o meno, lo
sfondo della nostra storia presente. Resa possibile dal crollo del
sistema sovietico e dal rapido sviluppo dei mezzi di comunicazione
elettronica, la mondializzazione rappresenta un processo di unificazione
progressiva della Terra. Ma non si tratta di un’unificazione
qualunque. Quella che si realizza sotto i nostri occhi opera
all’interno della logica del capitale e dell’ideologia del mercato.
In altri termini, la Terra tende ad unificarsi sotto forma di un grande
mercato. Il mercato è per definizione il luogo in cui le differenze
sono neutralizzate, attraverso la riduzione a più o meno grandi quantità
di quell’equivalente universale che è il denaro. Il mercato trasforma
tutto in merce, mentre, al contrario, ciò che non può essere
trasformato in merce sfugge al mercato. Con la mondializzazione i paesi
sviluppati passano dalla società con mercato alla società di
mercato. Ciò significa che interi frammenti della vita umana che in
precedenza erano fuori controllo, a partire dalle produzioni artistiche
e culturali, sono ormai inclusi nel mercato, mentre, parallelamente, il
modello di mercato si interiorizza nelle coscienze, portando poco a poco
con sé una reificazione generalizzata dei rapporti sociali.
È
chiaro che non è la sinistra “cosmopolita” ad aver portato a
compimento la mondializzazione, essendo questa piuttosto opera della
destra liberale. È quest’ultima ad aver facilitato e poi accompagnato
il compimento della tendenza secolare del capitalismo a diffondersi
sempre di più – non avendo il mercato altri limiti che se stesso. Il
capitalismo si è così rivelato più efficace del comunismo
nell’abbattere le frontiere, mettendo di fronte a una dolorosa
alternativa coloro che lo combattevano ieri in nome di un ideale
internazionalista. Le conseguenze di questa mondializzazione commerciale
senza regole, senza controllo e direzione, di questa macchina che avanza
sola travolgendo tutto al suo passaggio, sono ben note. Si tratta
innanzitutto della tendenza all’omogeneizzazione planetaria,
all’uniformazione degli stili di vita e dei comportamenti tramite una
generalizzazione di un modello antropologico che riporta l’uomo alla
sua dimensione di produttore-consumatore. La mondializzazione tende alla
monocultura mondiale, che sfocia in un imperialismo che non ha nemmeno
il coraggio di dire il suo nome, poiché l’espansione planetaria del
mercato corrisponde all’imposizione unilaterale dello stile di vita
occidentale al mondo intero. E che sfocia inoltre in una propaganda
pubblicitaria in scala planetaria in favore di un ideale di vita ridotto
al consumo e al divertimento, propaganda cui si aggiunge il discredito
di ogni modello alternativo, la celebrazione ossessiva dell’ordine
costituito da parte di un sistema mediatico il cui principale piacere
consiste nell’auto-contemplazione davanti allo specchio messo lì dal
sistema stesso, e infine, la creazione, acceleratasi dopo gli
avvenimenti del 11 settembre scorso, di una sorta di Panopticon
planetario: è l’avvento della società di controllo e di sorveglianza
totale.
La mondializzazione significa, ancora,
l’abolizione del tempo e dello spazio. Tutto succede e si moltiplica
ormai in “tempo zero”, ovvero immediatamente. Gli attentati di New
York e di Washington sono avvenuti nello stesso momento in tutte le
televisioni del mondo, gli scambi commerciali si effettuano in pochi
secondi da un angolo all’altro del pianeta, la minima crisi locale
investe immediatamente il mondo intero. Lo spazio è abolito alla stessa
maniera. I territori perdono ogni giorno di più un po’ della loro
importanza. Le frontiere non arginano più nulla – né le
informazioni, né i programmi, né i segni o i simboli, né i flussi
finanziari, né le merci o le migrazioni umane – perdendo così il
ruolo che era stato loro per secoli, ovvero quello di garantire la
permanenza delle identità e delle culture.
Parallelamente, la distinzione tra
“interno” ed “esterno” perde efficacia. È particolarmente
significativo, per esempio, che le forze di polizia debbano oggi sempre
di più far fronte a situazioni di tipo militare, mentre le forze
militari fanno guerre che ci vengono presentate come operazioni
internazionali di polizia. Ciò significa che la mondializzazione fa
sparire le differenze tra interno ed esterno. Nella misura in cui le
frontiere non arginano più nulla, la mondializzazione consacra
l’avvento di un mondo senza esterno, un mondo che per definizione non
ha nulla sopra di lui – ovvero di una tirannia globale che non è
limitata da nulla.
La
mondializzazione segna in questo modo l’entrata nell’epoca
postmoderna: impotenza sempre maggiore degli Stati-nazione, recupero
d’importanza delle comunità locali e delle logiche continentali,
indebolimento delle organizzazioni di massa a favore delle reti.
Il mondo unificato non ha più centro né periferia, ed è questo il
motivo per cui sarebbe ingenuo cercare un “direttore d’orchestra”
della mondializzazione. La mondializzazione non dipende da nessuno anche
se in parte – ma solo in parte – è sinonimo di americanizzazione, e
coloro stessi che ne approfittano di più ne sono gli strumenti, gli
agenti, piuttosto che le menti. Trasformata dalla logica del capitale,
essa funziona come la tecnoscienza, secondo la sua propria logica e le
sue proprie dinamiche: la sua sola esistenza è all’origine del suo
sviluppo. In una tale situazione, ogni punto del pianeta diventa in
qualche modo centro e periferia di per se stesso. Le grandi società
industriali, i cartelli di narcotrafficanti, le mafie e le
organizzazioni criminali funzionano secondo lo stesso modello della
delocalizzazione e della dispersione. Nel mondo delle reti, la logica
disgiuntiva del sistema è una logica di tipo virale. I virus che
colpiscono i computers, le epidemie attuali (dall’AIDS alla mucca
pazza, dall’afta alle nuove malattie infettive), le minacce di guerra
batteriologica, l’azione di organizzazioni terroristiche implicate
nella guerra delle reti: tutto ciò fa capo ad uno stesso modello,
tipicamente postmoderno, di logica virale.
Ma la mondializzazione è
anche il suo contrario. Più mette in atto l’unificazione, più
accresce la frammentazione. Più mette in atto il globale, più
favorisce il locale, secondo un classico movimento dialettico. Ma
attenzione: se la globalizzazione distrugge le identità nel momento
stesso in cui fa sorgere il desiderio di mantenerle o di farle
rinascere, quelle che resuscita non sono le stesse identità di ieri. La
mondializzazione fa sparire le identità organiche, integrate,
equilibrate, per restituirle il più delle volte reattive, convulsive e
contratte. L’ascesa del radicalismo islamico, il fiorire di
irredentismi, la comparsa di un neoterrorismo globale sono alcuni degli
aspetti tra gli altri. Conosciamo la massima che riassume questa
dialettica: «Jihad vs. McWorld». Tale massima ci pone di fronte al
problema di sapere cosa fare nel momento in cui rifiutiamo “McWorld”
senza per questo scegliere “Jihad”.
È
chiaro a questo punto che si deve ridare coraggio alla sfida identitaria.
Dopo la libertà e l’uguaglianza, l’identità sta diventando la
grande passione degli anni a venire. La libertà e l’uguaglianza sono
state in passato negate da poteri dittatoriali di tipo classico.
L’identità, invece, diventa tanto più problematica quanto più
l’ideologia dell’Identico si diffonde. Ma anche qui bisogna prestare
attenzione. L’identità è al giorno d’oggi tanto un problema che
una soluzione. Infatti, se c’è domanda di identità, è soprattutto
perché le identità si sono dissolte, perché non si reggono più da sé.
Opporre l’identità alla mondializzazione non può dunque limitarsi a
ripetere uno slogan, ad accontentarsi di una parola-feticcio. Anche le
identità ereditate diventano oggi identità scelte, innanzitutto perché
il loro contenuto è sempre più vago, e poi perché le identità al
giorno d’oggi sono efficaci solo quando scegliamo e decidiamo di
riconoscerci in esse.
Piuttosto
che accontentarsi di invocare l’identità, si tratta dunque di
definirla e di darle un senso, di spiegare perché essere portatore di
un’identità piuttosto che di un’altra permette di giustificare un
modo di vedere, di pensare e di vivere non paragonabile ad altri.
L’identità non è mai statica, ma dinamica. Non è il passato, ma
piuttosto il modo in cui immaginiamo e ricostruiamo il passato.
Complessa, fragile, sempre emergente, essa è una narrazione, scrive
Paul Ricoeur, che definisce l’identità narrativa come la capacità di
ricostruire continuamente il passato per rendere il presente più
coerente e per proiettarsi nel futuro.[viii]
Allo stesso modo, l’identità non è un’essenza, ma una sostanza.
Non è ciò che si oppone al cambiamento, ma ciò che permette di
restare se stessi cambiando continuamente. Infine, lungi dall’essere
una proprietà isolata, è indissociabile da una relazione, il che
significa che è sempre riflessiva, poiché non ci si costruisce che in
rapporto all’altro. Ed è questo il motivo per cui non si può pensare
l’identità rimanendo in una logica del bunker o dell’etnocentrismo:
la costruzione di sé non può fare a meno dello scambio con l’altro.
La mondializzazione segna forse la fine delle identità territoriali, ma
non certo la fine delle identità tout court, e ci chiede così
uno sforzo enorme per dare loro un nuovo contenuto.
All’ideologia
dell’Identico bisogna infine contrapporre il principio di diversità.
Un principio trae forza dalla sua stessa evidenza. La diversità del
mondo costituisce la sua unica e vera ricchezza, essendo essa artefice
del bene più prezioso: l’identità. I popoli, così come le persone
non si equivalgono. Dire che nessuno vale più degli altri non significa
dire che sono tutti sono uguali – l’Identico in vesti diverse –,
ma che sono tutti diversi. La tolleranza, se questa parola ha ancora un
senso, non consiste nel guardare l’Altro per vedere in lui
l’Identico, ma nel capire ciò che lo costituisce in quanto altro,
ovvero nel cogliere l’alterità, realtà irriducibile ad ogni
“comprensione” che si basi su una semplice proiezione di sé.
L’imperativo che deriva da questo principio è semplice: bisogna fare
di tutto per non trasmettere ai nostri figli un mondo meno
differenziato, quindi meno ricco, di quello che abbiamo ereditato.
Non
si tratta tuttavia di cadere nell’idealismo. Il differenzialismo
non impedisce i giudizi di valore, non più di quanto condanni ad un
relativismo che ignora la verità. Evita solo di restare in bilico in
una posizione astratta, di porsi come istanza dominante (perché
“universale” o “superiore”) in virtù della quale sarebbe
possibile, se non necessario, imporre agli altri popoli un modo di
essere che non gli appartiene. Tuttavia, le identità possono
fronteggiarsi, certe differenze possono affermarsi a spesa di altre.
Naturalmente, in un’occasione simile è normale che si difenda per
prima la propria appartenenza, ma una cosa è difendere la propria
identità contro un abuso o un’aggressione (colonizzazione,
immigrazione etc.), altra è invece considerare che l’unica identità
ad avere un valore sia quella di cui si fa parte. Nel primo caso il
principio di diversità non è messo in causa, mentre nel secondo caso
lo è.
Non
si tratta nemmeno di passare da un estremo all’altro privilegiando ciò
che è differente al punto di dimenticare ciò che è comune. Sosteniamo
semplicemente che la differenza è più importante. È più importante,
innanzitutto, perché è essa che specifica, che definisce l’identità,
è essa che fa di ogni persona o di ogni popolo un essere
insostituibile. È più importante, in secondo luogo, perché
l’appartenenza all’umanità non è mai immediata, ma al contrario è
sempre mediata: si è umani in quanto si appartiene ad una delle culture
o delle collettività costitutive dell’umanità. È più importante,
infine, perché è a partire dalla singolarità che si può accedere
all’universalità, e non il contrario, che significherebbe dedurre da
un universale posto a priori un’idea astratta della singolarità. Ogni
esistenza concreta è così indissociabile da un contesto particolare,
da una o più appartenenze specifiche. Ogni appartenenza è sicuramente
una restrizione, ma è una restrizione che ci libera dalle altre. Il
sogno dell’incondizionato non è che un sogno.
C’è
evidentemente una contraddizione tra l’omogeneizzazione planetaria e
la difesa della causa dei popoli, che implica il riconoscimento ed il
mantenimento della loro pluralità. Non si può difendere
contemporaneamente l’ideale di un mondo unificato e il diritto dei
popoli a disporre di se stessi, poiché nulla ci garantisce che ne
dispongano nel senso di questo ideale. Allo stesso modo, non si può
difendere da una parte il pluralismo come legittimazione e rispetto
delle differenze, continuando dall’altra a desiderare l’uguaglianza
delle condizioni, che ridurrà tali differenze. Infine, e soprattutto,
se sulla terra non ci sono che uomini “come gli altri”, per quale
motivo proclamare i diritti imprescrittibili dei singoli individui? Come
celebrare contemporaneamente ciò che ci rende singolarmente
insostituibili e ciò che ci renderebbe virtualmente intercambiabili?
Certo, si può sempre eludere tali domande con delle formule
acrobatiche, come ad esempio «l’uguaglianza nella differenza», ma
espressioni di questo tipo non hanno alcun senso: non fanno pensare ad
altro che ad una differenza indifferente. Non si può sostenere
il diritto alla differenza pensando che ciò che lega gli uomini
all’Identico sia più profondamente costitutivo della loro identità
sociale di ciò per cui si distinguono gli uni dagli altri.
L’incommensurabilità delle persone o
delle culture non è sinonimo di incomunicabilità. Essa implica solo il
riconoscimento di ciò che le distingue in modo irriducibile.
L’ideologia dell’Identico aspira alla trasparenza totale, ma tutto
ciò che riguarda la società implica sempre una zona d’ombra. Una
società nella quale non ci sarebbero che uomini “come gli altri”
sarebbe una società in cui gli individui sarebbero diventati
interscambiabili, al punto che la scomparsa o l’eliminazione di uno di
essi, dal punto di vista della società globale, avrebbe un’importanza
relativa. La differenza è inoltre un fattore di resistenza, e dunque di
libertà. Se gli individui e i popoli fossero fondamentalmente uguali, o
se fossero totalmente plasmabili, sarebbero molto più minacciati dalle
propagande e dai condizionamenti. Il riapparire continuo della loro
diversità, e il profondo polimorfismo della specie umana, mostrano
invece che essi sono antropologicamente resistenti ai modelli
omogeneizzanti.
*
La
concomitanza di un presente fatto di angoscia e frustrazione, di
debolezza ed esclusione, e di un futuro pieno di minacce di ogni sorta,
la crisi delle ideologie moderne e delle religioni salvifiche, la paura
del caos sociale, e infine lo spettacolo della dissoluzione progressiva
delle identità collettive, costituisce sicuramente una miscela
esplosiva. Con la mondializzazione entriamo in un’epoca che non dice
più nulla sugli obiettivi della vita sociale, entriamo in un modo di
rapportarsi al reale che mette la comunicazione al di sopra del suo
contenuto di verità, entriamo in una prospettiva in cui ogni logica che
non sia economica o morale è messa da parte. La mondializzazione è
senza fine? Naturalmente nessuno può rispondere a questa domanda, ma si
possono se non altro fare alcune constatazioni. La prima è che il
sistema mondializzato rimane un sistema altamente vulnerabile, proprio a
causa della sua stessa estensione e del carattere globale della sua
portata. In un sistema siffatto ogni cosa si ripercuote su ogni altra.
Il minimo choc, la minima disfunzione, non rimangono circoscritti
all’ambiente circostante, ma si propagano istantaneamente in tutto il
sistema – e tanto più velocemente, come si è visto recentemente,
quanto più l’asimmetria delle forze in campo subentra al rapporto di
forze tendente all’“equilibrio”.
La
seconda constatazione è che la globalizzazione fornisce anche i mezzi
per combatterla. Le reti sono infatti un’arma che permette di mettere
in relazione tra loro gli spiriti ribelli dispersi in ogni angolo della
Terra. Il declino degli Stati-nazione libera le energie alla base, crea
nuovo spazio per la democrazia partecipativa, moltiplica le possibilità
di azione locale autonoma. Favorendo la riapparizione della dimensione
politica del sociale che le grandi macchine statali avevano a lungo
occultato, esso favorisce contemporaneamente l’applicazione ad ogni
livello del principio di sussidiarietà, che è uno dei modi migliori di
rimediare alla tendenza attuale della globalizzazione. Asimmetria delle
forze: non investire nel globale, ma opporre le reti alla macchina, il
virus al sistema, il locale al globale.
Infine, non dimentichiamoci che la
storia, lungi dall’essere “finita”, è sempre aperta. Lo è oggi
molto di più di quanto non lo fosse ieri, nella misura in cui siamo
entrati con ogni evidenza in un periodo di transizione. Nessuno aveva
previsto uno solo dei grandi avvenimenti cui abbiamo assistito a partire
dalla caduta del Muro di Berlino. Tuttavia, il sistema dei media non fa
che ripetere che viviamo nel migliore dei mondi possibili, o addirittura
nel solo mondo possibile, che non c’è alternativa, e che ogni
tentativo di cambiare regole o norme non potrebbe far altro che
peggiorare le cose. È a questa grande menzogna, di fronte alla quale
tanti, troppi si sono già arresi, che bisogna rispondere, provando che
invece un’alternativa è sempre possibile.
Gli
spiriti ribelli sono sempre esistiti. Ma il mondo attuale riserva loro
un posto del tutto particolare. All’epoca della modernità, il ribelle
appariva in ritardo rispetto al rivoluzionario. Oggi che la modernità
è agli sgoccioli, egli riconquista completamente il suo posto. La
mondializzazione, come ho detto, fa della Terra un mondo senza esterno,
che non si può più attaccare dal di fuori. Un mondo siffatto è
destinato non tanto all’esplosione, quanto alla depressione implosiva.
La mondializzazione consacra l’avvento delle reti, la cui influenza si
propaga come un virus. Il ribelle si confà a questo mondo, proprio
perché anima delle reti diffonde le sue idee in modo virale.
In
un mondo che tende all’omogeneo il ribelle, infine, rappresenta la
singolarità stessa. In un mondo sempre più conformista, egli è
l’anticonformismo stesso. In un mondo destinato alla trasparenza
totalitaria, egli è un punto oscuro, un soggetto che ha saputo rimanere
reale in un mondo di oggetti virtuali, un insorto per antonomasia in un
mondo destinato alla sorveglianza totale, uno straniero che potremmo
escludere di diritto in nome della lotta contro l’esclusione se lui
stesso non si fosse escluso a priori. Ecco perché il futuro appartiene
al pensiero ribelle, a quel pensiero che segue e traccia confini
inediti, disegna una nuova topografia, prefigura un mondo diverso. La
storia non è mai finita, rimane aperta. È sempre imprevedibile. Ecco
perché non bisogna mai abbassare la guardia di fronte a ciò che ci
aspetta, di fronte a ciò che riusciamo solamente a presagire e
intravedere, ma non a prevedere.
(Traduzione
di Giangiacomo Vale)
NOTE
[i]
Testo di una
conferenza tenuta a Parigi nel gennaio 2002.
[ii]
Jean Nicolas, La rébellion française. Mouvements populaires et conscience sociale,
1661-1789, Paris, Seuil, 2002.
[iii]
Ernst Jünger, Le traité du Rebelle ou le recours aux forêts, Paris, Christian
Bourgois, 1981 (trad. italiana Il Trattato del Ribelle,
Adelphi, Milano, 1990).
[iv]
Cfr. gli Atti del Convegno organizzato nel 1999 dal
Dipartimento di Antropologia Sociale dell’Università di
Manchester: «The Right to Difference is a Fundamental Human Right»,
in Left Curve, XXXV, 2001, pp. 112-137.
[v]
Marcel Gauchet, La religion dans la démocratie. Parcours de la laïcité, Paris,
Gallimard, 1998, pp. 68-69.
[vi]
Come ha recentemente scritto Wiktor Stoczkowski, «se il pensiero dell’esclusione fosse
veramente fatto di conclusioni dedotte dalla sola osservazione delle
differenze, esso non potrebbe sparire che in un mondo popolato di
prodotti perfettamente identici, di cloni» («Les fondements de la
pensée de l’exclusion», in La Recherche, janvier 2002, p.
46). L’autore aggiunge che «difendendo l’uguaglianza degli
uomini in nome dell’idea secondo la quale tutti sono identici, si
dimentica che essi sono identici solo da un certo punto di vista, e
che colui che adotterà un altro punto di vista li troverà
differenti» (Ibid.).
[vii] Cfr. Alain de Benoist, «Face
à la mondialisation», in Les grandes peurs de l’an 2000. Périls
et défis du XXIe siècle, Actes du XXXe
Colloque national du GRECE, Paris, 1er décembre 1996, Paris, GRECE,
1997, pp. 9-43.
[viii]
che deriva dalla distanza presa tra il sé e l’io) Paris,
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