Fonte: www.centrostudimeridie.itLA
LEZIONE DI TOCQUEVILLE Democrazia,
libertà, partecipazione
Come
è noto, Tocqueville ha parlato molto della democrazia, soprattutto di
quella in America, ma non solo: anche della democrazia in Europa. Infatti
(e questa è la sua grande intuizione, che giustifica l’appellativo di
veggente che alcuni gli hanno attribuito[1]), Tocqueville ha compreso
molto presto che l’Europa era attesa esattamente dallo stesso destino
dell’America. Questo è il messaggio de La democrazia in America. Ribaltando la prospettiva tradizionale
(difesa ancora, nel secolo precedente, da Montesquieu), che associava la
democrazia ad uno stato di cose ormai trascorso (le città-stato
dell’antica Grecia), Tocqueville dimostra che la democrazia non è
soltanto legata al passato, ma è riferibile anche al presente. La
democrazia non è che l’altra faccia della modernità. La modernità è
la democrazia. Ne La democrazia in
America, Tocqueville non si accontenta dunque, da etnologo, di descrivere
le particolarità del sistema politico americano; il suo libro ha una
portata più generale. Attraverso il prisma americano, è la democrazia
stessa che si svela nella sua essenza più profonda. La democrazia in
America è lo specchio attraverso il quale gli Europei possono leggere il
loro avvenire. È necessario, però, intendersi sul senso che Tocqueville
dà alla parola democrazia. Secondo lui, la democrazia non si definisce in
primo luogo con il riferimento alla libertà,
bensì all’eguaglianza. È
l’eguaglianza la nozione fondamentale. Detto in altro modo, il contrario
della democrazia non è il dispotismo (ci torneremo più avanti), ma
l’aristocrazia. Per aristocrazia bisogna intendere l’insieme di quelle
società definite tradizionali, come ad esempio la Francia dell’Ancien Régime.
Tocqueville parla, quanto a lui, di società di caste
(occasionalmente anche di classi).
Ma è la stessa cosa. In queste società molto gerarchizzate e ripartite,
i privilegi della classe superiore hanno un carattere ereditario, cioè si
trasmettono di generazione in generazione. Gli uomini appartenenti alle
classi inferiori non accedono che difficilmente a quella superiore. La
democrazia, in realtà, non ignora le classi sociali. Anch’essa è un
sistema di caste (o di classi), ma (ed è questo il punto più importante)
senza privilegi ereditari. Dal
punto di vista giuridico, tutti gli individui sono posti sullo stesso
piano. In concreto, ciò significa che le sole ineguaglianze ancora
sussistenti sono quelle legate al denaro. Tutte le altre sono scomparse. Questa
antitesi tra democrazia e l’Ancien Régime costituisce l’articolazione
centrale de La democrazia in America,
in qualche modo il suo “filo rosso”. Tocqueville, giocando su effetti
di contrasto, mostra i numerosi sviluppi della democrazia, in particolare
nella seconda e terza parte del secondo volume, quella che è stata
definita la «seconda» Democrazia
in America (apparsa nel 1840). La
democrazia non viene naturalmente dal nulla. Per Tocqueville, essa si
inscrive al termine di una lunga evoluzione storica, che egli fa risalire
al Medio Evo, più esattamente al XII secolo: «Seguendo
lo svolgersi della nostra storia, non riusciamo a trovare in
settecento anni un solo avvenimento che non abbia contribuito al progresso
dell’eguaglianza»[2]. Egli
non esita, a questo proposito, ad evocare i disegni della
Provvidenza: «Lo sviluppo graduale dell’eguaglianza delle condizioni è
dunque un fatto provvidenziale; ne ha i principali caratteri: è
universale, è duraturo, sfugge alla potenza umana»[3].
Tocqueville afferma così di aver scritto il suo libro «sotto
l’impressione di una sorta di terrore religioso», terrore generato
nella sua anima «dalla vista di questa rivoluzione irresistibile che
avanza attraverso i secoli»[4].
In altri termini, si è in presenza di una pesante tendenza della storia
umana, alla quale sarebbe vano opporsi: «È dunque saggio credere che un
movimento sociale che ha origini così lontane possa essere arrestato
dagli sforzi di una generazione? È possibile che dopo aver distrutto la
feudalità e vinto i re, la democrazia indietreggi davanti ai borghesi ed
ai ricchi? Si arresterà proprio ora che è diventata così forte e i suoi
avversari così deboli?»[5].
È
quindi evidente che la democrazia non ha un carattere statico, ma è
riconducibile ad un processo evolutivo, volto all’eliminazione di ogni
ineguaglianza, e ciò in tutti i
campi, compresi quelli originariamente “risparmiati”, come il
campo economico. In questo senso, la democrazia è sempre in movimento, più
esattamente essa è tutt’uno
con il movimento stesso della storia, il quale non si arresterà che quel
giorno in cui tutte le ineguaglianze saranno scomparse. Come a dire che
non si arresterà mai. Poiché, evidentemente, ci saranno sempre
delle ineguaglianze da combattere, quello della democrazia è un compito
senza fine. Se pure alcune ineguaglianze, come quelle che sono opera
dell’uomo, possono essere eliminate, cosa ne sarebbe delle altre, di
quelle radicate in natura? Esse, palesemente, sono ineliminabili: tutto ciò
che si può fare, eventualmente, è nasconderle. Ma occultarle è una
fatica di Sisifo: bisogna sempre ricominciare. E questo è il compito che
caratterizza la democrazia e che le conferisce legittimità. La democrazia
non trae la sua legittimità dal fatto che dà la parola al popolo (può
tranquillamente non concedergliela o fingere di farlo, falsificandone
l’espressione, filtrandola, contraffacendola, manipolandola, ecc.), ma
dal fatto che essa combatte l’ineguaglianza sotto ogni sua forma. Libertà
degli Antichi e libertà dei Moderni Ritorniamo
adesso alla libertà. Per mettere meglio in risalto l’originalità delle
vedute di Tocqueville in materia, faremo riferimento ad un testo di
Benjamin Constant, la sua celebre conferenza sulla libertà degli Antichi paragonata a quella dei Moderni, del 1819. Constant sviluppa
la tesi secondo cui ciò che noi, ai giorni nostri, chiamiamo libertà non
ha niente a che vedere con ciò che gli antichi, loro,
definivano con questa parola. Al limite, le due concezioni sono
antinomiche. «Il fine dei moderni, egli dice, è la sicurezza nei
godimenti privati; ed essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle
istituzioni per questi godimenti»[6].
La libertà dei Moderni si identifica dunque con l’indipendenza
individuale, nel senso che lo Stato garantisce «la sicurezza dei
godimento privati». È sulla parola godimenti
che bisogna richiamare
l’attenzione. La libertà dei Moderni è dominata dall’edonismo. Ora,
gli Antichi davano alla parola libertà un senso del tutto differente. Per
libertà essi intendevano la «partecipazione attiva e costante al potere
collettivo»[7].
È una nozione molto distante da quella di indipendenza individuale. Gli
Antichi, rileva Constant, ammettevano, come compatibile con questa libertà
collettiva, l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità
del gruppo[8].
Partendo
da ciò, Benjamin Constant se la prende con coloro che, come Rousseau,
hanno voluto resuscitare la libertà degli Antichi nell’epoca moderna.
Egli evidenzia, in primo luogo, che la partecipazione al potere collettivo
non merita realmente tale nome se non nel caso in cui la collettività non
superi una certa dimensione. Infatti, più una comunità si ingrandisce,
meno, necessariamente, ciascun individuo esercita influenza
sull’insieme: «L’estensione di un paese diminuisce di molto
l’importanza politica che tocca a ciascun individuo. Il repubblicano più
oscuro di Roma e di Sparta aveva un potere. Non così il semplice
cittadino della Gran Bretagna o degli Stati Uniti»[9].
Constant insiste anche sul fatto che i cittadini manchino, oggigiorno, del
tempo per occuparsi degli affari pubblici. Essi sono completamente
assorbiti dalle loro occupazioni private. Nell’antichità, i compiti
della vita quotidiana erano affidati agli schiavi, e dunque il problema
non si poneva. I cittadini, se lo desideravano, potevano passare
l’intera giornata nella piazza pubblica a discutere di politica. Ora,
con la scomparsa della schiavitù, questa possibilità non esiste più.
Rousseau pecca quindi di anacronismo, poiché egli non ha minimamente
compreso la sua epoca. Qual
è la posizione di Tocqueville all’interno di questo dibattito?
Innanzitutto, egli fa la stessa constatazione di Benjamin Constant, e cioè
che le persone oggigiorno hanno sempre di più la tendenza a ripiegarsi su
loro stesse e, dunque, anche a privilegiare i “godimenti privati”.
Tocqueville, però, si dimostra ancora più preciso: «Gli uomini che
vivono in tempi democratici hanno molte passioni; ma la maggior parte
delle loro passioni provengono dall’amore per le ricchezze o vi
conducono»[10].
Ma se Constant aderisce senza riserve a questa tendenza, Tocqueville si
mostra molto più critico. Egli non è per principio ostile
all’individualismo, ma nello stesso tempo si impegna a mostrarne le
incongruenze. La prima di queste è legata alla nozione stessa di
individualismo. Essa infatti rivela subito i suoi limiti. «Nelle
democrazie, rileva Tocqueville, tutti gli uomini sono simili e fanno cose
pressappoco simili»[11].
L’individualismo, guardato da vicino, non è che l’altra faccia del
mimetismo sociale. Le persone si imitano reciprocamente, e perciò si
individualizzano. O l’inverso: più esse si individualizzano, più sono
portate ad imitarsi vicendevolmente. In
breve, l’individuo non esiste. Crediamo che esista, ma egli non c’é.
È una conchiglia vuota. Da qui la noia
che ispira la vista di una siffatta società: «Dopo aver contemplato per
qualche tempo questo quadro così instabile, lo spettatore si annoia»[12]. Gli uomini degradati sotto un
dolce dispotismo L’altra
impasse è quella del dispotismo. È il tema del famoso capitolo
intitolato «Quale tipo di dispotismo devono temere le nazioni
democratiche», in cui Tocqueville mostra che la ricerca del piacere e
dell’agiatezza conduce gli individui, del tutto naturalmente, a
rinunciare alla loro indipendenza per rimettere allo Stato
dell’assistenza il compito di risolvere l’insieme dei problemi legati
alla sete di piacere. Infatti, chi più dello Stato è nella posizione di
rispondere alle aspettative dei cittadini in questo campo? «Voglio
immaginare sotto quali nuovi tratti il dispotismo potrebbe riprodursi nel
mondo: io vedo una folla innumerevole di uomini simili e uguali che girano
senza riposo su loro stessi per procurarsi dei piccoli e volgari piaceri
con i quali riempiono la loro anima […]. Al di sopra di questi si eleva
un potere immenso e tutelare che da solo si incarica di assicurare il loro
godimento e di vegliare sulla loro sorte […]. Esso ama veder gioire i
cittadini, purché essi pensino solo a divertirsi. Lavora volentieri per
la loro felicità; ma ne vuole essere l’unico agente e il solo arbitro;
provvede alla loro sicurezza, prevede ed assicura i loro bisogni, facilita
i loro piaceri, dirige i loro principali affari, le loro industrie, regola
le successioni, divide le eredità; ciò non può liberarli del tutto
dall’agitazione e dalla pena di vivere»[13].
Un
tale regime, se non si confonde esattamente con il dispotismo
tradizionale, non merita meno di essere qualificato come dispotico. È,
come spiega Tocqueville, una nuova specie
di dispotismo, con caratteristiche diverse rispetto a quello antico. «È
più esteso e più dolce, degrada gli uomini senza tormentarli»[14].
Non
si arriverà qui a sostenere che Benjamin Constant non abbia mai
affrontato questo tema. Sempre nella sua conferenza sulla libertà degli
Antichi paragonata a quella dei Moderni, egli attribuisce ai depositari
dell’autorità queste parole: «Qual è in fondo lo scopo di tutti i
vostri sforzi, il motivo dei vostri lavori, l’oggetto delle vostre
speranze? Non è la felicità? Ebbene, questa felicità, lasciateci fare,
e noi ve la daremo»[15].
Ma Constant non si sofferma sull’argomento, lo sfiora soltanto. La sua
attenzione, ancora una volta, si concentra su altro, innanzitutto sui
rischi legati alla volontà di resuscitare la libertà degli Antichi,
rischi che si sono per la prima volta, secondo lui, concretizzati
all’epoca della Rivoluzione Francese. Constant teme infatti che la
storia si ripeta, teme un ritorno al 1793. Tocqueville ragiona
diversamente. Contrariamente a Constant, non crede possibile un ritorno
del Terrore. Egli stesso afferma, ne La democrazia in America, che
le nazioni democratiche non amano le rivoluzioni[16].
La vera minaccia, secondo lui, è un’altra: la propensione tipica
dell’uomo democratico ad affidarsi interamente allo Stato
dell’assistenza per realizzare la sua pretesa “felicità”. Dove Tocqueville si contrappone a Benjamin ConstantÈ interessante questa contrapposizione tra Tocqueville e Constant. Essa
mette a confronto due padri fondatori del pensiero liberale, che in realtà
difendono posizioni molto distanti tra loro. Per Constant,
l’individualismo è in sé una cosa buona e si identifica con la libertà
dei Moderni, legata alla ricerca del piacere e dell’agiatezza. Essa
procede di pari passo con lo sviluppo del commercio e dell’industria.
Per Constant tutto ciò è positivo, ed egli vorrebbe che si procedesse
ancora più lontano in questa direzione. È uno strenuo difensore di ciò
che oggi si chiamerebbe liberalismo economico. Certamente, egli segnala un
rischio, la possibilità che i depositari dell’autorità
strumentalizzino la ricerca del piacere e dell’agiatezza. Dal semplice
“lasciar fare”, si scivola agevolmente nel “lasciateci fare”
(lasciateci fare, ci si occupa di tutto). Ma non è questo, secondo lui,
il pericolo principale. Quest’ultimo, per dirlo in una frase, non viene
dall’individualismo, bensì da un’eventuale reazione
anti-individualistica, quella consistente nel volere, contro ogni ragione,
resuscitare un modello anacronistico di società, modello ove
l’individuo, nonostante la sua partecipazione al potere collettivo, non
sarebbe che una frazione della totalità sociale. Tocqueville pensa esattamente l’inverso. Egli ritiene che bisogna
porre dei limiti all’individualismo, vegliare in particolare sul fatto
che gli individui non sacrifichino ogni cosa per la ricerca del piacere e
dell’agiatezza. Ma come si può fare ciò? Troviamo a questo punto la
libertà-partecipazione. Uno degli argomenti invocati da Constant per
sostenere la tesi secondo cui la libertà degli antichi non era
trasferibile nell’epoca moderna era, come si ricorderà, l’eccessiva
dimensione degli Stati moderni, nel senso che “l’estensione di un
paese diminuisce di molto l’importanza politica che tocca a ciascun
individuo». Ora, in una certa misura, il federalismo permette di aggirare
l’ostacolo. L’argomento della maggiore dimensione degli Stati moderni
non vale che per gli Stati unitari, la Francia ad esempio, in cui il
potere è molto centralizzato. Qui effettivamente sorgono dei problemi. Ma
la situazione è differente negli Stati non
unitari, ove il potere è decentralizzato. In questi Stati tali
problemi non si pongono proprio perché il potere è decentralizzato. Ci
si trova di fronte a grandi Stati, ma allo stesso tempo anche a Stati in
cui i cittadini partecipano attivamente al potere collettivo, a tutti i
livelli della federazione. Si spiega così, senza contraddizione, l’ammirazione che Tocqueville
nutre verso il sistema politico americano. Questa ammirazione è
inseparabile dalla percezione acuta che aveva Tocqueville dei vicoli
ciechi a cui conduceva l’individualismo e della necessità di trovare
una via d’uscita. Infatti, in una certa misura, la libertà-partecipazione
ne costituisce una: «Quando i cittadini sono costretti ad occuparsi degli
affari pubblici, sono necessariamente sottratti ai loro interessi
individuali e strappati, da un momento all’altro, alla vista di sé
stessi»[17].
Tocchiamo qui il cuore stesso della politica tocquevilliana. Come Benjamin
Constant, Tocqueville è legato alla libertà dei Moderni, ma,
contrariamente a quest’ultimo, egli pensa che la libertà dei Moderni
non basti a sé stessa. Essa è vitale solo se si appoggia sulla libertà-partecipazione,
libertà che ha di prezioso il fatto che obbliga l’individuo a prendere
in considerazione altri interessi,
non soltanto i propri. Strappandolo a se stesso, questa libertà lo spinge
all’altruismo. In ciò, la libertà-partecipazione fa da utile
contrappeso alla ricerca esclusiva del piacere e dell’agiatezza. Questa
ricerca certamente permane, ma perde il suo carattere esclusivo, e quindi
anche ossessivo. Questo è, se lo si vuole, un ritorno alla libertà degli Antichi, ma
senza gli slittamenti della Rivoluzione Francese; infatti, la libertà
degli Antichi è qui accuratamente inquadrata e regolamentata, in qualche
modo raffreddata. Quindi non
c’è da temere nessuno slittamento. Pertanto, si discerne meglio ciò che è proprio della democrazia nei
suoi rapporti con la libertà. Tocqueville vede nell’individualismo il
tratto dominante dell’età democratica. Ora, egli sostiene che
l’individualismo abbandonato a sé stesso conduce al dispotismo. È
quindi la democrazia stessa a
condurre al dispotismo, è questa la sua inclinazione naturale. Ma essa,
per l’esattezza, non vi è condannata.
È ciò che dimostra il sistema politico americano. Il sistema americano
interviene come un correttivo per
impedire alla democrazia di obbedire alla sua logica, che è quella di
tendere al dispotismo. È per effetto di questo intervento che la natura
viene corretta. Tocqueville insiste molto su questo punto. Non è la
natura, bensì l’arte che impedisce alla democrazia di precipitare nel
dispotismo. Tocqueville è condotto così, al contrario di Constant, a
rivalutare la libertà degli Antichi, ma a rivalutarla rifacendosi ad
un’altra esperienza, rispetto a quella a cui si era rifatto Constant
nella sua opera sulla libertà degli Antichi paragonata a quella dei
Moderni: non più dunque alla Rivoluzione Francese (esperienza,
effettivamente, poco concludente), bensì alla democrazia in America. È
questo tipo di democrazia, secondo Tocqueville, che permettere di
mostrarsi relativamente ottimisti in questo campo. In breve, tutto ciò che si può dire sulla democrazia, Tocqueville si
è più o meno sforzato di dirlo. Se non ha esattamente esaurito
l’argomento, ne ha esaminato in compenso quasi tutti gli aspetti. Egli
non è né a favore né contro la democrazia; si accontenta di descriverla
così come è, senza una presa di posizione particolare. Il suo stile è
quello di Montesquieu, sempre sobrio, parco dei suoi mezzi. L’emozione
non è completamente assente, ma, come ha rivelato Marc Fumaroli, essa non
ha nulla di invadente. La sua funzione è soprattutto retorica. Essa
concorre ad «ottenere l’assenso del lettore»[18].
Per il resto, Tocqueville non ha mai ceduto alla tentazione passatista.
Egli è il contrario stesso di un nostalgico, e sa che non si tornerà più
indietro. Ma si può fare in modo che le cose avvengano in maniera
migliore di come accadrebbe se fossero abbandonate a loro stesse. Perciò
bisogna arginarle, canalizzarle. È una metafora che torna spesso in
Tocqueville. Se non è in potere dell’uomo far risalire il fiume alla
fonte, egli può almeno prevenirne alcune piene, orientarne il corso
affinché non devasti ogni cosa al suo passaggio. Cosa direbbe Tocqueville dell’attuale regime occidentale? Vi
riconoscerebbe ancora la “democrazia in America”? Per certi versi, sì.
Mai, ad esempio, le persone si son così tanto imitate come oggi. Almeno
su questo punto la continuità è evidente. Si sta sempre bene in
democrazia. Chi pretenderebbe per di più che “l’amore per le
ricchezze” oggi abbia perso importanza?
In questo momento è ancora la passione dominante. Su altri
aspetti, in compenso, si mostrerebbe più riservato. Cosa ne è, in
particolare, della partecipazione? Partecipazione
o meno, le persone sanno molto bene oggi che non hanno alcuna presa
sull’andamento della società. Esso sfugge loro completamente. Almeno su
questo punto, Benjamin Constant si è dimostrato miglior profeta di
Tocqueville. Effettivamente, la partecipazione non è che un mito.
Tocqueville diceva che la partecipazione strappava i cittadini “alla
vista di loro stessi”. Può
essere che questo avvenisse ai suoi tempi. Oggi si insisterebbe
soprattutto sul ruolo che gioca la partecipazione nella moltiplicazione, a
tutti i livelli della società, di piccole nomenclature interstiziali e,
di conseguenza, sul rafforzamento
del potere della nomenclatura considerata nel suo insieme. In questo senso la libertà-partecipazione si integra al meglio con le
forme attuali di dispotismo, costituendone uno degli ingranaggi
privilegiati. (traduzione
italiana di Francesco Fabio)
[1] Marc Fumaroli, Chateaubriand. Poésie et Terreur, Éditions de Fallois, Paris 2003, p.736. L’ultimo capitolo dell’opera è consacrato ai rapporti tra Chateaubriand e Tocqueville ( Tocqueville era il nipote acquisito di Chateaubriand ). [2]
Tocqueville, De la démocratie en Amérique, Gallimard, Parigi 1961, t. I, p. 3. [3] Ibid., p. 4. Molti cristiani, all’epoca di Tocqueville, combattevano la democrazia. Volendogli credere, essa era opera del diavolo. Tocqueville conosceva bene questa disposizione spirituale, in quanto essa apparteneva al suo ambiente familiare, l’ambiente legittimista. Adesso egli, giustamente, se ne distanzia. Ne L’Ancien Régime et la Révolution, altra sua grande opera, di una ventina d’anni posteriore a De la démocratie en Amérique, egli scrive « Credere che le società democratiche siano naturalmente ostili alla religione significa commettere un grande errore: niente nel cristianesimo né, allo stesso modo, nel cattolicesimo, è in assoluto contrario allo spirito di queste società, e parecchie cose vi sono molto favorevoli» (L’Ancien Régime et la Révolution, Gallimard-Folio, Parigi 2002, p. 64). Se egli non dice precisamente che lo sviluppo graduale dell’eguaglianza è imputabile all’influenza cristiana, suggerisce nondimeno il fatto che esista un legame tra cristianesimo e democrazia. [4]
Ibid. [5]
Ibid. [6] Benjamin Constant, De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes, in De la liberté des Modernes, Le Livre de Poche, Pluriel, Parigi 1980, p. 502. Ne L’Esprit de Lois(XI,6), Montesquieu scriveva già « La libertà politica in un cittadino è quella tranquillità dello spirito che proviene dall’ opinione che ognuno ha della sua sicurezza». [7]De
la liberté des Modernes,op.
cit., p. 501. [8]
Ibid., p. 495 [9]
Ibid., p. 498. [10]
Tocqueville, De la démocratie en Amérique, op. cit., t. II,p. 236. [11]
Ibid. [12]
Ibid. [13]
Ibid., p. 324. « Una folla innumerevole di uomini simili che
girano senza riposo su sé stessi per procurarsi dei piccoli e volgari
piaceri», dice Tocqueville. Come non ricordare Nietzsche? «Noi
abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini, e ammiccano
» (Così parlò Zarathustra, prologo § 5). [14]
Ibid., p. 323. [15]
Benjamin Constant, De la liberté des Modernes , op. cit., p. 513. [16] «Non soltanto gli uomini delle democrazie non desiderano naturalmente le rivoluzioni, ma essi le temono» (De la démocratie en Amérique, op. cit., t. II, p. 259). In questo senso gli avvenimenti del 1848 lo prenderanno in contropiede. Cfr. su questo punto la prefazione di Claude Lefort ai Souvenirs di Tocqueville (Gallimard-Folio, Parigi 2004). [17]De
la démocratie en Amérique,op. cit., t. II,P. 109. [18]
Marc Fumaroli, Chateaubriand. Poésie et Terreur, op. cit., p. 728.
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